STAGIONE LIRICA 2018-2019
Venerdì 16 novembre 2018 ore 20.30 – Turno A
Domenica 18 novembre 2018 ore 16.00 – Turno B
Mosè in Egitto
Azione tragico-sacra di Andrea Leone Tottola
Musica di Giachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini in collaborazione con Casa Ricordi, Milano a cura di Charles S. Brauner
Prima rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 5 marzo 1818
Personaggi e Interpreti
Faraone ALESSANDRO ABIS
Amaltea SILVIA DALLA BENETTA
Osiride RUZIL GATIN
Elcia NATALIA GAVRILAN
Mambre MARCO MUSTARO
Mosè FEDERICO SACCHI
Aronne MATTEO ROMA
Amenofi ILARIA RIBEZZI
Direzione
FRANCESCO PASQUALETTI
Regia
LORENZO MARIA MUCCI
Assistente alla regia
MARIKA PETRIZZELLI
Scene e costumi
JOSÈ YAQUE
con VALENTINA BRESSAN
realizzati da
OFFICINA SCART® DI WASTE RECYCLING – GRUPPO HERAMBIENTE
Disegno luci
MICHELE DELLA MEA
ORCHESTRA DELLA TOSCANA
CORO ARS LYRICA
Maestro del Coro MARCO BARGAGNA
Nuovo allestimento del TEATRO DI PISA
Coproduzione TEATRO DI PISA, TEATRO COCCIA DI NOVARA e
FONDAZIONE HAYDN DI BOLZANO,
in collaborazione con OPÉRA THÉÂTRE DE METZ MÉTROPOLE
in occasione del 200° anniversario della prima rappresentazione
5 marzo 1818, Teatro San Carlo di Napoli
in occasione del 150° anniversario della morte di Gioachino Rossini
13 novembre 1868
L’OPERA
ATTO PRIMO – L’Egitto è avvolto in una fitta tenebra, la nona delle dieci piaghe inflitte da Dio perché il Faraone si risolva a lasciar libero lo schiavo popolo d’Israele. Terrorizzati, gli Egiziani invocano il proprio Re affinché faccia cessare questa sciagura e il Faraone è quindi costretto a far chiamare Mosè e a promettergli la liberazione del suo popolo purché torni a splendere la luce. Mosè rivolge quindi una preghiera a Dio e, non appena scuote il proprio bastone, le tenebre si dissolvono nello stupore generale. Il Faraone esorta così gli Ebrei alla partenza prima del pomeriggio. Tutti giubilano, tranne suo figlio, il principe Osiride, che, immerso in tristi pensieri, una volta rimasto solo dà sfogo a tutto il suo dolore: legato segretamente in matrimonio alla giovane ebrea Elcia, sa che ora la perderà. Raggiunto dal fido Mambre, mago e consigliere del Faraone, lo esorta a seminare il seme della discordia fra gli Egizi affinché si ribellino alla partenza, cosa che questi si impegna a fare, anche perché odia Mosè e lo ritiene un ciarlatano. Giunge quindi Elcia per dare l’ultimo saluto all’uomo che ama, e i due si confidano tutto il loro strazio.
Il piano di Osiride è andato a segno: la regina Amaltea, allarmata dalla folla che va radunandosi sotto il palazzo per chiedere la revoca dell’ordine di congedo per gli Ebrei, invita Mambre a chiamare il Faraone il quale, sobillato dallo stesso Osiride che insinua una possibile alleanza degli Ebrei coi Madianiti, nemici dell’Egitto, ritira la parola data, nonostante gli inviti di Amaltea a mantenervi fede.
Gli Ebrei sono tutti riuniti nella pianura e, pronti per l’esodo, stanno levando lodi a Dio. É Osiride in persona a comunicar loro che la partenza è sospesa e che ogni tentativo di ribellione sarà soffocato nel sangue. A nulla valgono le rimostranze di Mosè, che ricorda il volere di Dio e la tremenda punizione che colpirà l’Egitto. All’arrivo del Faraone, che conferma quanto annunciato dal figlio, Mosè scuote di nuovo il bastone: subito scoppia un tuono e cade una tempesta di grandine e pioggia di fuoco, tra lo spavento e lo scompiglio generale.
ATTO SECONDO – A palazzo reale il Faraone, piegato dall’ultimo flagello, consegna ad Aronne il nuovo decreto che libera gli Ebrei, imponendo loro la partenza entro l’alba del nuovo giorno. Allontanatosi Aronne, egli riceve Osiride e gli comunica che la Principessa d’Armenia accetta di sposarlo; nel vedere il figlio profondamente turbato, gliene chiede ragione,
Ma questi non riesce a confessargliela. Intanto Mosè, al cospetto di Amaltea, la ringrazia della sua intercessione ed ella esprimi i suoi auspici di pace. Uscita la Regina, Aronne avverte Mosè d’aver visto Osiride allontanarsi con Elcia; Mosè lo manda ad avvisare Amaltea ed esce.
Osiride ha condotto Elcia in un sotterraneo per nasconderla e scongiurarne così la partenza; le svela con sgomento la proposta di nozze ricevuta e il suo progetto di fuggire con lei: per il loro amore egli è disposto a vivere anche da semplice pastore purché insieme. Il commosso dialogo fra i due giovani è interrotto dall’arrivo di Amaltea e Aronne accompagnati dalle guardie egizie. Dopo un istante di smarrimento generale, a fronte dei richiami alla ragione sia di Aronne che di Amaltea, Osiride annuncia la sua intenzione di rinunciare al trono piuttosto che ad Elcia, ma Elcia tenta di dissuaderlo e Aronne la conduce via mentre Osiride è trattenuto da Amaltea.
Il Faraone ha convocato di nuovo Mosè per comunicargli l’ennesimo voltafaccia: il possibile attacco dei Madianiti e dei Filistei contro l’Egitto, una volta partiti gli Ebrei, fa sì che egli abbia deciso di revocare l’impegno preso. Mosè, sdegnato, minaccia la morte di tutti i primogeniti egizi, a cominciare dal real Principe. Il Faraone ordina quindi alle guardie di arrestare Mosè, poi convoca l’assemblea dei Grandi del regno e annuncia loro la decisione di associare Osiride al trono. Mosè, portato in catene al cospetto dei sovrani, viene sprezzantemente minacciato da Osiride. Nello stupore generale, si fa avanti Elcia che, scarmigliata e in affanno, rivela le nozze segrete con Osiride, poi, rivolgendosi a lui, lo invita a obbedire alla ragion di stato, a sposare la principessa d’Armenia e a liberare il popolo ebraico riportando così la pace; per parte sua, a lei non resterà che espiare il proprio errore lasciandosi morire. Per tutta risposta Osiride, furente, snuda la spada e si scaglia contro Mosè ma viene colpito da un fulmine e stramazza morto al suolo, nell’orrore generale. Il Faraone si getta sul corpo del figlio e sviene mentre Elcia dà sfogo al proprio dolore.
ATTO TERZO – Dopo aver attraversato il deserto, gli Ebrei sono giunti alle rive del Mar Rosso e, con timore, vedono così precluso il loro cammino verso la Terra promessa. Mosè li invita ad aver fiducia in Dio, s’inginocchia, subito imitato dal suo popolo, e intona una solenne preghiera. Un fragore d’armi sempre più vicino terrorizza gli astanti: è l’esercito del Faraone che sta per raggiungerli. Mosè, allora, tocca il mare con il suo bastone e le acque si aprono lasciando passare indenne il popolo d’Israele. Quando il Faraone e Mambre, con le truppe egizie, si lanciano nel varco per inseguirli, le acque del mare si richiudono di colpo su di loro sommergendoli per sempre.
Francesco Pasqualetti
È COME GUIDARE UNA FERRARI SCAGLIETTI…
Scriveva Rossini alla madre nel 1818, a proposito di Mosè in Egitto, che lui chiamava ‘oratorio’: «Eccomi a Napoli sano e salvo e appresso all’oratorio che anderà quanto prima» (2 gennaio); «Sto scrivendo notte e giorno l’oratorio e ne spero bene» (9 gennaio); «Io scrivo l’oratorio, mi diverto e cogliono il prossimo» (20 gennaio); «Io ho quasi terminato l’oratorio e va benone, è di un genere però elevatissimo e non so se questi mangiamaccheroni lo capiranno, io però scrivo per la mia gloria e non curo il resto» (13 febbraio);
«L’oratorio mi costa assai fatica perché di un genere non di molto effetto popolare ma sublime e fatto per accrescere la mia radicale riputazione» (24 febbraio) e chiudeva: «Mi scordavo di dirvi che la musica dell’oratorio è divina e che sto per sposare la Colbran».
Sublime e divino. Sì, e in effetti Mosè in Egitto è forse il Rossini migliore, è forse il Rossini più ispirato, è certamente il Rossini di cui egli stesso ci scrive e ci lascia traccia, quello dove egli concentra le sue più grandi energie e le sue più grandi aspirazioni.
Oggi, chissà perché, il Rossini serio, e Mosè in Egitto in particolare, è quasi sparito dai cartelloni il nome della facilità di ascolto dell’Italiana in Algeri, del Barbiere di Siviglia, de La Cenerentola… eppure proprio Mosè in Egitto ci riserva delle sorprese, delle bellezze veramente straordinarie che è perfino difficile descrivere a parole: vi invito a lasciarvi stupire da una bellezza che non ci si aspetta. Qui ci troviamo di fronte a un Rossini che è già romantico prima dei Romantici, che è all’avanguardia prima delle avanguardie, che compie scelte in orchestra che nessun compositore oserà per cento anni. Bisognerà, per esempio, aspettare Bartók per avere un compositore che chiede ai violinisti di pizzicare così forte la corda da farla sbattere sulla tastiera e produrre un rumore di legno, un effetto che Rossini nel 1818 fa suo come elemento espressivo per sottolineare la morte del figlio del Faraone, e questo è solo un esempio della costante ricerca che sottende a tutto il Mosè.
Avete presente la sensazione di guidare un’auto all’avanguardia, come per esempio la mitica Ferrari Scaglietti degli anni ‘60? Ecco, man mano che andavo avanti, nelle prove, a dirigere questo Mosè, questa era la sensazione che provavo. Una sensazione da brivido, perché si sperimenta il confine del possibile.
Lorenzo Maria Mucci
Note di regia
POPOLI E INDIVIDUI NEL FLUSSO DELLA STORIA
Non so se l’Esodo fu in effetti la prima rivoluzione, come pensano molti commentatori. Il Libro dell’Esodo però (assieme al Libro dei Numeri) con- tiene certamente la prima descrizione della politica rivoluzionaria.
Michael Walzer, Esodo e rivoluzione
Bisogna ammettere che la coralità di Mosè in Egitto è veramente qualcosa di rivoluzionario per l’opera italiana di quel tempo (…).
Paolo Isotta, I diamanti della corona
Nella struttura drammaturgica e musicale del Mosè in Egitto, per certi versi di incredibile modernità (ad esempio nell’uso di ellissi narrative che la avvicina alle odierne sceneggiature cinematografiche), il tema politico è messo in rilievo dalla forte presenza del coro.
La coralità, intesa come manifestazione del sentimento collettivo, determina la struttura drammaturgica dell’opera, segnandone il ritmo e fornendo la cornice alla vicenda privata della relazione tra Osiride e Elcia.
Coralità che si fa argomento politico nella contrapposizione tra due popoli, l’uno oppressore, l’altro schiavo e che aspira alla libertà; l’uno che spinge all’azione Faraone, l’altro che attende con ferma fiducia un segnale da Mosè.
Penso ad esempio al coro d’apertura “Ah! chi ne aita?”: gli Egiziani accusano Faraone di essere causa delle proprie disgrazie e spingono affinché lo stesso Faraone trovi la soluzione. Pressione che trova soluzione musicale nell’arrestarsi subitaneo del coro e nella significativa pausa (“dopo qualche pausa”) che precede il “Venga Mosè” di Faraone.
Penso anche al coro degli Ebrei nel finale del primo atto (“All’etra, al ciel”) che, insieme ad Aronne e Amenofi, canta le lodi di un dio patriota, che “I lacci fe cader / Di rio servaggio” e di cui tutti potranno ammirare giustizia e pietà. E sembra veramente lo stesso Dio manzoniano che “nell’onda vermiglia / chiuse il rio che inseguiva Israele” (Marzo 1821).
É una coralità in qualche modo laica nonostante la severità oratoriale che trova poi forma agita nella contrapposizione tra i due leader. Nel pensiero politico occidentale il racconto biblico dell’Esodo è ancora considerato il paradigma della rivoluzione, intesa come percorso – anche doloroso – per arrivare alla terra promessa del cambiamento.
Da una parte dunque Faraone, in balia di spinte diverse e fin troppo riflessivo, che argomenta e cerca soluzioni per “ragion di Stato”. Dall’altra un Mosè integralista che argomenta solo attraverso le minacce. Il rapporto oppressore/schiavo che lega i due popoli è di natura economico-politica e non culturale. Gli Egiziani infatti non hanno mai obbligato gli ebrei a convertirsi ai loro Dèi (v. la lunga battuta di Osiride nella quinta scena del primo atto) e Faraone si affanna a spiegare a Mosè le ragioni politiche contrarie alla partenza degli Ebrei per il mantenimento della stabilità ai confini del regno (atto II, scena 4).
Nonostante l’argomento biblico, il tema religioso appare piuttosto sfumato. Quello di Mosè è un Dio che vuole la libertà per il suo popolo inteso come comunità che crede in lui e quindi è un Dio pronto ad uccidere ma anche ad accogliere: al termine del quintetto “Celeste man placata!” Aronne e Mosè non esitano un solo secondo a fare proselitismo.
É un Dio che, pur presente fin dai primi tre accordi all’unisono dell’introduzione, si manifesta solo attraverso segni “naturali”. Le colpe degli oppressori sono punite attraverso un movimento della natura ‘fuori ritmo’: tenebre che permangono sostituendosi alla luce; grandine e fulmini che cadono a ciel sereno; mare che si ritira e poi ritorna. Il tema religioso trascolora così nella sacralità della Natura e nel sovvertimento dei ritmi naturali.
C’è poi il tema tutto privato della relazione tra Osiride e Elcia, di cui alcuni aspetti rischiano di rimanere sepolti sotto l’ingombrante e generico tema amoroso. Osiride, pur in una posizione di grande responsabilità politica, si muove cercando con ogni mezzo di assoggettare il bene comune al suo interesse privato e appare a tratti invasato al pari di Mosè. Lo scambio dopo il duetto del primo atto ci mostra un Osiride che non esita a usare la forza per trattenere Elcia che invece mette il dovere al di sopra dei suoi desideri:
Os Chi sarà quell’uomo, quel Dio, Che da me ti può involar? (trattenendola con impeto)
El Deh! Mi lascia…
Os Invan lo speri…
El Ah paventa!
E d’altronde, dopo aver tentato con complotti e corruzione di ottenere ciò che vuole, morirà non proprio da eroe nel disperato tentativo di rimuovere con la violenza l’ostacolo principale al suo desiderio.
La presenza del coro ha il suo contraltare nella presenza dei recitativi accompagnati. Da una parte la storia di due popoli, dall’altra le singole storie individuali. Dipanando scenicamente i recitativi è possibile mettere in luce i desideri, le aspettative, i timori, le convinzioni, i dubbi dei personaggi. L’assenza di azione è in realtà solo apparente perché la parola si fa azione nel costante sforzo di modificare l’altro e permettendo quindi l’emersione delle peculiarità dei singoli. Faraone è un sovrano attento ai suoi sudditi e dunque sempre alla ricerca di una soluzione politica che lo tenga “a galla” (è proprio il caso di dire) rispetto agli eventi, che siano catastrofi o tumulti, ma è anche un padre orgoglioso del proprio rampollo. Osiride non ha alcun rispetto per il bene comune e men che meno per il suo ruolo che anzi utilizza solo per il suo tornaconto personale. Amaltea è una sorta di mater misericordiosa nei confronti del genere umano ed è anche l’unica capace di leggere nell’animo dei suoi congiunti. Mosè è un uomo di fede, granitico nella sua convinzione che gli deriva da un rapporto privilegiato con la divinità e che ha comunque un costo in termini di energia vitale. Poi c’è Elcia che non si fa illusioni e che è disposta a sacrificare i propri sentimenti e desideri per qualcosa di più grande. Ma anche Aronne, Amenofi e finanche Mambre hanno spazi, seppur piccoli, per dimostrare tratti del proprio carattere.
Popoli e individui immersi nel flusso della storia che a volte
accelera, a volte rallenta in un vortice ma sempre prosegue implacabile la propria strada incurante di chi accompagna o di chi travolge. Come un fiume lascia detriti incagliati intorno ai piloni dei ponti, così il flusso della storia lascia scorie nelle storie e nell’animo degli uomini.
Su questi elementi fondamentale è stato il contributo di Josè Yaque, artista cubano, nelle cui opere è possibile rintracciare l’attenzione agli eventi naturali che spazzano via l’esistente e favoriscono la creazione di nuovi equilibri, in uno scorrere continuo e costante della storia dei popoli. Nella ricerca dell’artista è forte l’interesse per i fenomeni che riguardano la collettività, la visione del fluire della vita dove il singolo si perde nella molteplicità, nella pluralità di fatti e passioni.
Per materiali utilizzati e poetica il segno visivo di Josè Yaque è talvolta intimo e domestico, talvolta monumentale e potente, al contempo attuale e fuori dal tempo, legandosi dunque strettamente con l’intenzione del disegno registico.
ILARIA MARIOTTI
Storica dell’arte e curatrice, è docente di Storia dell’Arte contemporanea presso l’Accademia di Belle
Arti di Brera e direttrice del Centro Attività Espressive Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno.
JOSÉ YAQUE: LA STORIA E IL DIVENIRE
La forza delle immagini create da Josè Yaque sta, a mio parere, in due elementi che contraddistinguono la sua ricerca e la sua produzione: sta, parimenti, nella loro essenza che senti provenire da lontano, da quel mondo cubano dove l’uomo e la natura devono convivere fronteggiandosi, dialogando e subendo l’uno la presenza dell’altro. Dall’altra parte la forza viene dall’energia del gesto di Yaque che plasma, dirotta, lega e unisce, scava e porta alla luce, in un’energia unica che, da rivoli differenti, si riversa poi nel prodotto finale.
L’uomo vive nel mondo in diretto contatto con le forze della Natura: benigna e materna, ma che può sfoderare il suo animo più cupo e distruttivo. Di fronte a lei l’uomo è minuscolo, le sue storie personali possono essere spazzate via in un attimo, nelle pieghe delle ere geologiche – il tempo della natura – la vita dell’uomo è un respiro.
La vita è energia e trasformazione: tutto è connesso in uno sguardo che non si sofferma sugli uomini ma comprende l’ambiente, non si sofferma sulle storie ma ha a che fare con la Storia. Qui il tempo e lo spazio vengono calcolati con parametri diversi che, in ordine a ampiezza, sono quelli in cui il destino del singolo sbiadisce e riprende spessore nel confluire nel percorso dell’umanità intera e in un comune destino, pone in primo piano la consapevolezza di essere parte di un universo, misterioso, dominato da imprevedibilità e bizzarria, dove gli sconvolgimenti della Natura generano caos e, nel loro placarsi, riorganizzano il mondo in inedite forme di armonia e bellezza. Questi eventi, che sono la punteggiatura del fiume della Storia, garantiscono il cambiamento, il Devenir che è condizione essenziale per la prosecuzione dell’umanità. Materia dell’artista sono i gorghi della storia, che con il loro caos e irrazionalità diventano materiale poetico: l’opera è un’immagine metaforica e simbolica, un osservatorio temporaneo dal quale, nella sua temporanea risoluzione, è possibile fermarsi per contemplare e analizzare il flusso del cambiamento e del Divenire.
Realizzate per movimentazione di materiali, accumuli e sedimentazioni le opere di Yaque, dalle installazioni alle pitture, fatte con le mani e condizionate dalle plastiche, conservano una sorta di energia originaria che deriva dalla consapevolezza di trarre forza dalla terra su cui si poggiano i piedi e dagli alberi, dal modo in cui essi si protendono verso il cielo, e dalle acque che la attraversano o sui cui la terra si affaccia. Non solo lo sguardo dello spettatore è chiamato in causa: lo spazio dell’installazione diventa lo spazio dell’azione e dell’interazione dell’opera con lo spettatore i cui sensi, tutti, sono coinvolti nel processo di avvicinamento e di relazione con l’opera. Le recenti impressionanti installazioni di Tumba abierta (opera in progress dal 2009 e che Yaque ha realizzato in formato monumentale per il Padiglione Cuba alla Biennale di Venezia del 2017 e per la sezione unlimited di Art Basel nel giugno 2018) confermano la necessità dell’artista di lavorare in chiave installativa e di inglobare lo spazio. Opere che affrontano il tema del mistero dell’universo in cui l’uomo vive aldilà della necessità di comprenderlo analiticamente e scientificamente mettendo al centro la bellezza della trasformazione.
Il rapporto fisico con i materiali, necessario per l’artista e per lo spettatore, affonda le sue radici in un eterogeneo sistema di riferimento culturale di Yaque in cui trovano posto e dialogano letteratura e filosofie, miti e leggende della cultura cubana (raccolti, ad esempio, dall’etnologo Samuel Feijòo) così come il pensiero di Arthur Schopenhauer e di Michel Foucault, e insieme costituiscono un immaginario complesso dove l’esperienza empirica si trasfigura in misticismo e viceversa.
Non è la prima volta che Yaque affonda le mani negli scarti della nostra società organizzandoli, poi, in immagini ricche di potenza: da Cavidad (2010), una cappella incorniciata da un arco a sesto acuto riempita da una monumentale quantità di oggetti di scarto che la trasformano in una sorta di grande ventre, evocando gli aspetti organici e anatomici dell’architettura destinata, come il corpo, a deperire.
Nel 2014 Yaque tratta i supporti espositivi dei dipinti presenti nel Museo Nacional de Bellas Artes, (La Habana, Cuba) come piloni di ponti attorno ai quali si sono accumulati detriti (recuperati dalle rive del fiume Almendares), trasportati da un fiume in piena. Le opere e i loro supporti arrestano temporaneamente il flusso del divenire del quale anche loro fanno parte. Il fiume, i detriti sulle sue sponde quale metafora del mondo dei fenomeni osservabili dall’uomo quali frammenti del reale è presente fin dal 2008 nella ricerca di Yaque (Horizontes de succesos, Galería de la facultad de Artes Plásticas, La Habana).
É del 2015 Interior con Huracán (2015), un vortice che sembrava divorare con forza centripeta quanto a lui si avvicinava, pronto a inglobare cose e persone.
Suelo Autóctono è il titolo di una serie di opere (2012 – 2017, realizzato all’Avana, Varsavia, Detroit e Milano, sempre diverso per via di cosa, nei luoghi diversi, viene utilizzato e poi buttato o inghiottito dalla terra e poi riportato alla luce) realizzate come carotaggi monumentali in un nostro ipotetico passato, dove oggetti sedimentati e compressi testimoni di attività umane si alternano a strati di terra che costantemente pare rigenerarli.
A Santa Croce sull’Arno, per la mostra Alluvione d’Arno (2017) Yaque ha realizzato due diverse installazioni con i rifiuti: in Devenir brandelli, cordami, zaini, cinture, borse di plastica si annodavano a qualunque elemento verticale fosse nelle vicinanze dell’entrata di Villa Pacchiani, luogo dove si è tenuta la mostra. Depositati lì, pareva, in seguito all’esondazione del fiume Arno che corre proprio dietro l’argine che fa da spalla alla Villa. Bellezza e poesia generate da una furia distruttiva appena passata.
Alluvione d’Arno era la seconda installazione realizzata all’interno della Villa costituita da un paesaggio fatto di scarpe dismesse che occupava una sala intera, la più grande e decorata: un’immagine che portava con sé l’eco dei passi dei tanti che hanno percorso le strade del paese e le strade del mondo migrando in questo luogo da tanti luoghi diversi, in un fiume di persone del quale anche noi facciamo parte, perennemente minacciati dall’alluvione della storia (nel nostro essere collettività), da quello della vita (nel nostro essere individui). Sempre nel 2017 per El Río y la fabricas – nell’ambito della mostra CUBA MI AMOR, presso Les Moulins, la ex cartiera di Boissy-le-Châtel oggi una delle sedi di Galleria Continua – Yaque ha usato i materiali elettrici appartenenti al sito dismesso costruendo una sorta di fiume perenne che si snoda nello spazio.
Nel 1912 Pablo Picasso compì un gesto rivoluzionario attaccando un pezzo di tela cerata con un motivo di paglia stampata su un dipinto (Nature morte à la chaise cannée, oggi al Museo Picasso, Parigi): il reale irrompe nella pratica artistica, in una sequenza di stratificazioni semantiche e di metafore (la paglia non è vera ma stampata sulla tela cerata). Da lì, così come dai collage di Braque e ancora di Picasso il reale entra nel dominio dell’arte, si compie quel processo che porterà poi, andando ben più lontano e passando da Boccioni e dai futuristi, da Marcel Duchamp, Kurt Schwitters, Dada, alla pratica di invadere lo spazio e renderlo percorribile dal corpo dello spettatore e non solo contemplabile e indagabile attraverso la vista.
I materiali, i più vari, che entrano nel processo di creazione dell’opera di Yaque non rappresentano, sono. Essi sono evidenza di loro stessi e reclamano di essere percorsi non solo con lo sguardo ma in qualche misura agiti. Se non nell’azione immediata, essi rimandano all’idea di poter essere afferrati, toccati, in una dimensione esperienziale che non riguarda tanto il presente quanto una loro vita passata. La rigenerazione degli oggetti e della materia passa attraverso la memoria di quanto sono stati e hanno rappresentato per l’uomo, per le società che li hanno prodotti e utilizzati. La loro rinascita riguarda il modo in cui il corpo dell’uomo ne ha fatto esperienza perché è attraverso il corpo che l’uomo fa esperienza del mondo. Questa dimensione è, all’interno di un movimento in continuo fluire e divenire, un cortocircuito: le dinamiche di movimento si fanno più complesse: gli oggetti che furono, nell’opera d’arte cambiano di segno attraverso uno scarto che li ribalta su loro stessi, pronti a reimmettersi, anch’essi, nel fiume della storia.
MAURIZIO GIANI
Amministratore Delegato Waste Recycling – Società Gruppo Herambiente
SCART® IL LATO BELLO E UTILE DEL RIFIUTO
Tradizione, innovazione e sostenibilità al servizio della creatività
É un anno importante il 2018. Esattamente venti anni fa nasceva il progetto SCART, pensato per integrare e completare la mission di Waste Recycling, oggi società toscana del Gruppo Herambiente che si occupa del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti industriali. Nel 1998, quando per la prima volta provammo ad utilizzare i rifiuti raccolti nei nostri impianti come materia prima per la realizzazione di nuovi oggetti di uso quotidiano e creazioni artistiche, sentivamo con forza l’esigenza di lanciare un messaggio concreto sull’importanza del riuso e del recupero di materia, nobilitando un settore – quello del trattamento dei rifiuti – che all’epoca era ancora molto demonizzato e poco conosciuto. Desideravamo avere a disposizione un linguaggio che fosse il più trasversale possibile e che arrivasse ad un pubblico molto vasto.
Dal nostro ingresso in Hera nel 2016 si sono moltiplicate le opportunità e la forza del progetto ha preso ancora più corpo portandoci a veder realizzate nel 2017 ben cinque mostre itineranti che hanno toccato le città di Ravenna, Imola, Modena, Udine e Pisa, ma anche partecipazioni artistiche di rilievo come l’aver realizzato le scenografie e i costumi per alcune tra le più importanti opere della tradizione lirica italiana ed europea come Il Flauto Magico, Cavalleria Rusticana, Il Barbiere di Siviglia o Tosca andate in scena in Toscana e in Veneto; o ancora la recente collaborazione con Opera on Ice 2018 svoltosi a Marostica.
Per due edizioni sul palco di XFactor e per ben cinque edizioni a Lajatico per il Teatro del Silenzio di Andrea Bocelli, SCART ha realizzato centinaia di costumi e accessori per gli spettacoli toscani del grande Maestro. Vent’anni di iniziative ricche e suggestive in contesti di straordinaria capacità evocativa come l’ultima mostra bolognese realizzata proprio all’inizio 2018 e che ci ha visto esporre le nostre opere nel ricco programma della 42^ edizione di Arte Fiera: oltre 13 mila sono stati i visitatori che in poco più di due settimane hanno ammirato le nostre creazioni nella splendida cornice di Palazzo Pepoli Campogrande facente parte della Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Con tanta passione, creatività e la voglia di fare del nostro meglio, SCART è oggi un progetto che si alimenta di importanti collaborazioni con istituti di ricerca e formazione come le Accademie di Belle Arti di Firenze e di Bologna, nonché con artisti e critici di fama internazionale. Una collezione d’arte di oltre 900 pezzi tra costumi di scena, quadri, sculture, elementi di arredo, strumenti musicali, abiti e lampade hanno fatto la storia di questo progetto. Sono passati vent’anni ed è una sorpresa ed una grande soddisfazione per noi constatare come quella scelta risulti anche oggi straordinariamente attuale. Nel contesto dell’Economia Circolare, SCART si inserisce infatti con una grande forza comunicativa, confermandosi uno strumento di grande valore etico ed estetico per incentivare comportamenti responsabili in materia ambientale.
FRANCESCO PASQUALETTI si diploma in pianoforte e composizione nei conservatori di Lucca e Firenze, e si perfeziona in direzione d’orchestra alla Royal Academy of Music di Londra con Sir Colin Davis, all’Accademia Musicale Chigiana di Siena con Gianluigi Gelmetti e alla Accademia Musicale di Stresa con Gianandrea Noseda.
Il 2018 lo ha visto impegnato in una nuova produzione de Il Trovatore per il Teatro Verdi di Trieste, nel nuovo allestimento di Ugo Nespolo de L’Italiana in Algeri a Pisa e Rovigo, ne Il barbiere di Siviglia a Lubecca e al Festival Verdi di Parma e Busseto con Un giorno di Regno.
Il 2017 ha visto il suo debutto all’Opera di Firenze – Teatro del Maggio Musicale Fiorentino con una produzione di Madama Butterfly che ha raccolto unanimi ed entusiasti consensi. É stato invitato per la terza volta in Nuova Zelanda, dove ha diretto Carmen per la New Zealand Opera in Auckland e Wellington ed è stato inoltre il direttore de Il Cappello di Paglia di Firenze di Nino Rota per LTL Opera Studio a Pisa, Lucca e Livorno con l’Orchestra Giovanile Italiana.
La stagione 2015/2016 ha visto il suo debutto al Gran Teatro La Fenice di Venezia con La Scala di Seta di Rossini, quello nella stagione sinfonica dell’Orchestre d’Auvergne in Francia, al Teatro dell’Opera di Colonia con Così fan tutte, al Kimmel Center di Philadelphia con Le Nozze di Figaro, all’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino con il Macbeth di Verdi, ed è inoltre tornato nei Teatri di Pisa e Lucca con Mefistofele e nei Teatri di Como e Pavia con Così fan tutte per Opera Lombardia.
Tra le sue recenti produzioni operistiche ricordiamo Il Matrimonio Segreto e Die Zauberfloete per il Teatro Regio di Torino, La Scala di Seta per il Festival d’Aix-en-Provence, La Bohème e Madama Butterfly per New Zealand Opera, Il Barbiere di Siviglia per il Festival di Stresa con l’Orchestra Giovanile Italiana, L’Italiana in Algeri e La Traviata per il Circuito Lirico Lombardo, Le Nozze di Figaro e Don Giovanni a Pisa, L’Elisir d’amore per il Teatro di Sassari, per il Teatro Lirico di Cagliari e per il RNCM di Manchester. Francesco è inoltre visiting professor per il repertorio lirico italiano presso il National Opera Studio di Londra.
è più volte invitato per concerti sinfonici sul podio dell’orchestra de I Pomeriggi Musicali di Milano, dell’ORT-Orchestra Regionale Toscana, della BBC Philharmonic di Manchester, dell’OJM-Orchestre des jeunes de la Mediterranee (in residence al Festival d’Aix-en-Provence) dell’Orchestra del Regio di Torino, dell’Orchestra Filarmonica di Torino, della RNCM Symphony Orchestra di Manchester e de I Virtuosi del Teatro alla Scala, collaborando con solisti di fama internazionale come Boris Belkin, Bruno Canino, Francesca Dego e Marie-Josèphe Jude.
Francesco è stato assistente di Gianluigi Gelmetti, Gianandrea Noseda, Sir Colin Davis e Trevor Pinnock al Teatro dell’Opera di Roma, alla Sydney Symphony Orchestra, all’Opéra de Monte Carlo, allo Stresa Festival e al Festival d’Aix-en-Provence. Nel 2009 Sir Colin Davis invita Francesco sul podio della London Symphony Orchestra per un concerto nell’ambito del LSO Discovery Scheme.
Francesco è stato direttore principale dell’OGU – Orchestra Giovanile dell’università di Pisa dal 2002 al 2008, e dal 2012 ad oggi è Direttore Artistico e Musicale dell’Orchestra Archè a Pisa.
Numerosi i premi ed i riconoscimenti internazionali: l’Accademia Chigiana gli conferisce il “Diploma d’Onore”, la Royal Academy of Music premia la conclusione dei suoi studi con l’Henry Wood Prize e con il Gordon Foundation Prize.
Nel 2017, inoltre, il Consiglio dei Governatori della Royal Academy of Music di Londra elegge Francesco “Associate of the Royal Academy of Music” (ARAM), un onore riservato agli ex-allievi dell’Academy che si sono particolarmente distinti nella professione musicale.
É inoltre laureato con lode in Filosofia a Pisa, con una tesi sul “De Infinto universo et Mondi” di Giordano Bruno, relatore Prof. Tommaso Cavallo.
LORENZO MARIA MUCCI, regista e docente di recitazione, collabora da oltre vent’anni con la Fondazione Teatro di Pisa, dove in particolare ha seguito a lungo i progetti formativi. Come insegnante ha collaborato con molto docenti nazionali e internazionali: Peter Clough (Guildhall School of Music and Drama, London), Agustì Humet (Institut del teatre, Barcelona), Michel Azama, Valeria Benedetti Michelangeli (Scuola Naz. di Cinema, Roma), Massimiliano Farau (Accademia Naz. d’Arte Drammatica, Roma), Roberto Romei. Ha inoltre tradotto e pubblicato Medea-Black di Michel Azama (ETS, 2004) e Ancora la tempesta di Enzo Cormann (ETS, 2007). Sempre per la Fondazione Teatro di Pisa ha diretto numerosi spettacoli tra cui le prime nazionali di Michel Azama: Croisades (2002) e Iphigenie ou le péché des dieux (2004).
Da diversi anni è docente di dizione e recitazione nell’ambito dei laboratori di Opera Studio. É cofondatore della compagnia Altredestinazioniteatro per la quale ha scritto e diretto 7900 meli, storia di Sophja e Lev Tolstoj (tour Fondazione Toscana Spettacolo stagioni 2011/12 e 2012/13) e diretto Variazioni Frankenstein di Francesco Niccolini.
Ha esordito nella regia lirica al Teatro Verdi di Pisa, nella stagione 2012/13, con la prima assoluta di Falcone e Borsellino di Antonio Fortunato; successivamente ha firmato le regie delle opera da camera Si camminava sull’Arno di Marco Simoni (anche questa in prima assoluta, Stagione 2013/14) e Il Convitato di Pietra di Dargomyžskij (Stagione 2014/13); nella Stagione successiva sono state sue le regie di Simon Boccanegra, Il Convitato di Pietra di Giovanni Pacini e del dittico di Bruno Coli, da Poe, The Tell-Tale Heart e The Angel of The Odd (quest’ultimo selezionato anche per l’Armel Opera Festival); nella stagione 2016/17, sempre per il Teatro Verdi di Pisa, ha curato la regia del Trittico Hindemith/Puccini (Sancta Susanna, Suor Angelica, Gianni Schicchi) e de Il Cappello di Paglia di Firenze di Nino Rota, ottenendo sempre più che positivi giudizi dalla critica e dal pubblico.
info: https://www.fondazioneteatrococcia.it/
Comunicato Stampa Fondazione Teatro Coccia di Novara